Domenica delle Palme

La voglia di scrivere: questa sconosciuta, mi sembra lontana rispetto ai tempi in cui era priorità. Adesso deve succedere veramente qualcosa che mi fa girare il sangue dentro, che mi lascia un groppo in gola, per scrivere. Le mille e una ingiustizie di questo mondo mi fanno, per una volta, spingere veramente i tasti su questo PC Samsung Windows 8 di ultima generazione.

Oggi sono stato alla Domenica delle Palme, qui a Gerusalemme: sono andato alla processione alle 3.30, ho fatto una pennica prima (sono stanco, due weekend di fila che lavoro), vado per obbligo di presenza. Per fortuna arrivo un po’ in ritardo, nel senso che ai volontari avevamo detto di essere la per le 2.30, ma la prima ora di fatto è andata persa. Becco Werner, 73enne svizzero rampante che ha rinunciato a poco nella sua vita, Yvonne, arrabbiata con il prossimo e Kerstin, l’opposto, solare, gentile, con un bello stile nel vestire (abbina bene le cose). Faccio due chiacchere, prosieguo nel mio cammino, giusto il tempo di scattare questo prodigio

.. (quasi da canzone di Liberato) per poi tornare indietro. La processione non è come me la immagino dalle mie parti, mortorio da campese giù dal balcun, ma viva, con canzoni, ragazzi giovani che cantano in lingue diverse (arabo, spagnolo, ebraico, danese, italiano, swahili) con tante comunità a rappresentare la propria comunità. Bellissimo! Non ci sono troppi turisti, c’è gente ma Gerusalemme non scoppia: che mondo la città vecchia, non ci si annoia oggi. Incontro alcuni ragazzi che conosco, dal corso di arabo ai compagni di calcio di Sheikh Jarrah, mi fa piacere.

La cosa che mi spinge veramente a scrivere questo pezzo è la notizia di un gruppo di quattro ragazzi cubani deportati in Bielorussia, dalla Lituania. Non so spiegarmi perché ma questa notizia di Mari mi fa veramente arrabbiare: Sienos Grupe, gruppo di volontari lituani che operano al confine con la Bielorussia per dare aiuto di base ai migranti nella foresta, aveva appena ottenuto per loro un foglio che permetteva la loro permanenza per un mese in Lituania (un-mese-uno), ospitati in un campo profughi (quanto sono magnanimo ad usare questo verbo!) in attesa che la loro richiesta d’asilo venga valutata. Probabilmente sono ragazzi che studiavano in Russia, la situazione è pessima adesso e provano la loro via verso l’Europa. La cosa che mi fa incazzare è che la polizia di frontiera, nonostante il foglio concesso da un’altra autorità lituana, se ne sbatte letteralmente e spedisce questi quattro ragazzi cubani verso la Bielorussia. Ma quando cazzo è ingiusto questo mondo? NONOSTANTE un foglio emesso da un’altra autorità lituana, persone singole si arrogano il diritto di spedire indietro altre persone verso la Bielorussia. Ma chi sei? Che diritto hai di cambiare la vita di quattro persone, quantomeno per i prossimi mesi?

Il menefreghismo è una cosa che mi manda fuori di testa. Il non voler comprendere le conseguenze delle proprie azioni, è inaccettabile ormai, non ci sono più scuse. L’ipocrisia di voler insegnare agli altri come stare al mondo, quando non siamo in grado nel quotidiano di comportarci a modo.

Un anno dopo

Articolo scritto il 17 Ottobre 2020, primo anniversario della Rivoluzione libanese.

Non è facile parlare di Libano in modo lucido, facendo una analisi in modo distaccato.

Nell’ultima settimana uno degli argomenti del giorno è il possibile ritorno di Rafiq Hariri, alla guida del governo come primo Ministro lo scorso anno allo scoppio delle proteste e della “Rivoluzione” del 17 Ottobre. Non è difficile però scrivere di una certa stanchezza verso i nomi delle grandi famiglie protagoniste della politica libanese, evergreen di cui il Libano non riesce a fare a meno: Joumblatt, Mikati, gli Hariri stessi, Gemayel, Franjieh e via dicendo.

La risposta alla recente esplosione del 4 Agosto, immatura per l’ennesima volta, da parte della classe politica verso la tragedia che ha colpito la città di Beirut, non fa che esasperare gli animi.

Il presidente della Repubblica Aoun ha rifiutato una commissione internazionale – si sa bene all’interno del paese cosa non hanno portato a galla le indagini sull’uccisione nel 2005 del primo ministro Hariri; il tono paternalistico verso i manifestanti che chiedono verità dopo il 4 Agosto non poteva mancare (questa la risposta).

Bassil, ex ministro degli Esteri (genero di Aoun, a scanso di dubbi) che ha sostenuto il problema non fosse tutto quell’ammonio di nitrato ma come è esploso – come se avere 1/10, secondo alcune stime, di Hiroshima 1945 stoccato al porto fosse normale.

Per proseguire, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, a pochi giorni dall’esplosione, non ha perso occasione per ripetere la narrativa trita e ritrita sulla miglior conoscenza del porto di Haifa rispetto a quello di Beirut – con la conta dei morti ancora in atto e i dispersi sotto le macerie.

Joumblatt, leader druzo (dalla morte del padre per mano siriana) provava nel frattempo a fare l’occhiolino ai protestanti facendo finta di non rendersi conto che è parte protagonista in Libano da più di quaranta anni.

Tra chi gioca la carta della piazza – Geagea, capobastone delle Forze Libanesi, ex comandante di milizia  con la sua piccola “Shatila” fatta a Sidone, nel sud del paese, per non dimenticare – e minaccia tra le righe il coinvolgimento di 15.000 combattenti pronti a “scendere in campo”  contro Hezbollah, in questi ultimi giorni – non proprio quello di cui il Libano ha bisogno in questa fase di crescente tensione inter-confessionale.

Il vero fallimento della classe politica libanese, a prescindere dalle dichiarazioni spesso fuori luogo, dopo l’esplosione del 4 Agosto, sta nel non essere stata nemmeno in grado di organizzare una risposta parziale dopo questa tragedia. L’Esercito completamente immobile, se non nella sorveglianza delle strade – non la priorità nei primissimi giorni –  fino almeno al 16-17 Agosto, a dodici/tredici giorni dall’accaduto, grida vendetta in qualche modo, considerando la giovane età dei ragazzi chiamati a pattugliare la città.

Tutto è stato lasciato in mano alle persone e organizzazioni locali che, oltre ai diversi problemi che già si trovano ad affrontare nel quotidiano, si stanno prendendo in carico la ricostruzione. “Cornuti e mazziati”, per dirla in soldoni.

L’aiuto delle organizzazioni locali cura in parte il sintomo ma non la malattia – il sistema che si dovrebbe riformare dice di volerlo fare con gli stessi protagonisti di sempre – come ben sostenuto da questo articolo di Pasquale Porciello.

Anche provando a credere alla volontà di riforma di alcuni dei protagonisti della vita politica libanese, diventa difficile farlo quando sono le stesse, medesime, persone ad avere portato il Libano sul baratro.

Il semplice fatto che un’esplosione pari ad 1/10 di Hiroshima 1945 non ha spinto nessuno dei protagonisti veri della politica libanese a fare un passo indietro e a lasciare spazio ad un governo composto da tecnici – come si prefigurava con l’iniziativa Adib – in grado di fare le sospirate riforme, necessarie per dare respiro alla popolazione, è sintomatico.

Seftali

Sono a Istanbul prima, ora sull’aereo che mi riporta verso Milano: oggi è il 20 Agosto 2020, ho lasciato Beirut e il Libano da poche ore. Credo di realizzare pian piano adesso, che sono in Turchia cosa effettivamente voglia dire. La mia identità di Simone Scotta è data molto dall’essere Simone Scotta in Libano: è stato cosi negli ultimi anni, mi sono calato appieno nel ruolo che ricopro e il lavoro che ho svolto ha dato un tratto importante anche alla mia vita al di fuori di esso. Forse pure troppo, ora mi sento sicuramente stanco ma anche un pochino “vuoto”, come se avessi lasciato un pezzo importante di me a Beirut. Pian piano mi ricostruirò in modo “diverso”, un Simone Scotta che è stato in Libano quattro anni e passa che ora vivrà a ……. (fill the void). Scary, a bit.

Spero di non tornare ai feeling classici che mi hanno caratterizzato negli anni, vale a dire, da sempre, a parte momenti più o meno lunghi, di forte insicurezza verso me stesso. Questo alle medie, come alle superiori, ho sempre guardato molto i miei compagni di classe/scuola senza mai riuscire a costruire un’identità mia forte.

Negli ultimi anni si i corridoi Umanitari, si l’aiuto ai siriani, si ho vissuto a Bey 4 anni e passa, si ho appreso un po’ di arabo però mi sento di controbattere, e lo penso al 100%, che fanno parte di un percorso normale di un ragazzo della mia età che vuole lavorare in cooperazione. Non sono speciale, per intenderci: ho lavorato in una città che offre mille opportunità, non ero in duty-station in Burundi, a vivere in un bunker, per tanti anni. Ero a Beirut, con la gita alla domenica, la birra a Badaro dopo lavoro e via dicendo. 

Ecco perché credo che, alla fine della fiera, ci sia tanta gente come me e con un bagaglio superiore al mio a livello di preparazione, a livello di periodi spesi in contesti complicati (altroche Beirut). Potrei semplicemente avere chiuso un’esperienza e that’s it, ora torno alla mia vita precedente – prima del 2013 –  o semplicemente a vivere come le persone “normali” – lavoro in ufficio, rotture di coglioni con il capo, calcetto una volta a settimana, i figli ad una certa, la pancetta da birra. Scary, a bit.

Vorrei continuare a ricevere input, la cosa più interessante di tutte per me: è conciliabile? Sono gli input che mi danno identità, lentamente ti cambiano il modo di pensare. E’ conciliabile con quello che farò ora? Peter Pan per sempre o vita “normale”: c’è una via di mezzo?  

Nel frattempo ho scoperto che Seftali, in turco, vuol dire pesca. Trovo sia una parola bellissima.  

Li Beirut

E’ difficile commentare quello che è successo due settimane fa, ormai, qui a Beirut. I feelings sono diversi, cambiano anche all’interno della stessa giornata nel giro di poche ore. Alla paura iniziale si è affacciata l’incredulità, quella della mattina successiva quando alle 6 sono uscito di casa per fare una passeggiata e vedere con i miei occhi quello che era successo, per davvero, senza filtri.

I miei occhi hanno visto vie, luoghi battuti e ribattuti nel corso degli anni e la sensazione non poteva che essere di incredulità: non poteva essere stata così forte quell’esplosione, non poteva aver fatto TUTTI questi danni. E invece sì, senza giri di parole.

I giorni successivi sono stati invece giorni “positivi”, in qualche modo: il clima era di rimboccarsi le maniche, dare una mano al vicino, all’altro nel pulire, togliere i vetri, spostare i mobili rotti. Nel mio piccolo, insieme ad un amico, ho dato una mano per alcune mattinate, e stessa cosa hanno fatto tante altre persone, anche provenienti da zone diverse della città o fuori Beirut.

Ancora una volta la città si è dimostrata “divisa”: quel che tocca una zona, un quartiere, non è stato percepito in un’altra, nonostante sia una città di medie dimensioni. I motivi sono storici – la fine della guerra civile non ha portato un processo di riconciliazione e narrativa condivisa –  ma anche banalmente di conformazione della città: c’è effettivamente una separazione tra l’Est e l’Ovest della città. Nonostante ciò e in chiave reattiva, la risposta è stata comunque comune, alla completa immobilità della politica.

E’ sabato mattina, ho fatto un giro stamattina a Nation Station, una delle iniziative di quartiere più vivaci nate subito dopo il 4 agosto per dare una mano a chi aveva perso molto – non voglio dire tutto perché sarebbe esagerato. Il feeling è lo stesso: c’è frustrazione tra le persone per il nulla prodotto, ancora una volta, dalla politica, come detto, che punta solamente al mantenimento dello status quo. E quindi ci si da “da fare” in modo individuale, a livello di quartiere, rispondendo a bisogni pratici. E’ una continuazione, di fatto, ai primissimi giorni successivi al 4 Agosto.

Condivido, personalmente, molto le parole di un giornalista belga/libanese in un video diventato virale in questi giorni: essere libanesi è un mestiere. Una gioia, una pena, un trauma (forse più di uno), livelli di stress altissimi, brutture accanto a angoli, anfratti di bellezza pura. Tra il maledirlo e l’incapacità di lasciarlo, tra amare il Libano e l’incapacità di viverci – per i libanesi.

Sicuramente condivido molti dei feeling qui citati, ma da 1) europeo e 2) bianco sono spesso e volentieri i lati positivi a prevalere, nessuno mi obbliga a stare qui e volendo potrei semplicemente prendere il primo aereo e tornare in Europa. Se sei palestinese, se sei uno sciita del sud della città, se fai parte delle 220.000 persone che da Ottobre 2019 a Marzo 2020 (in un paese di meno di sei milioni di persone) ha perso il lavoro, se hai perso la casa il 4 Agosto la musica è diversa, spesso malinconica e ben poco esaltante. Mantenere la speranza, nonostante la rabbia e l’ingiustizia (palese in tanti contesti, basta uscire di casa) non è facile.

Impatto & Equilibrio

Ho fatto un po’ di esercizi, flessioni, while listening music. Ho restituito il peso che utilizzo a Ron, il mio coinquilino. Torno in camera, mezzo sudato, la “lucetta” dell’abatjour è più forte di come la vorrei.

Vedo il pc, la musica ancora suona e mi dico ora scrivo qualcosa.

Non so cosa, idealmente vorrei mettere testa alla raccolta di scritti sui cui non farò mai nulla, ma forse non è destino. E quindi eccomi qui a voler scrivere qualcosa di personale che non sia troppo personale, generale ma non da essere banale, una via di mezzo che dia qualcosa a chi legge.

Ho scritto sei righe e ho detto poco. Vediamo.

Forse posso parlare degli expat che fanno filippiche a chi viene da fuori Libano, e poi non si mettono la mascherina e escono una sera si e l’altra pure.

Vorrei cambiare le cose, a livello generale: mi piacerebbe avere impatto, il sogno di tutti nell’umanitario, impatto che ho avuto certamente in questi anni ma che ora non mi sembra più di avere sui beneficiari. Abbiamo il culo pesante, nel nostro ufficio con l’aria condizionata, con poco senso di urgenza, che non riusciamo a far passare a noi in primis, oltre che a Roma.

Non voglio avere una vita da ignavio – non so se è corretto in italiano – non voglio essere il morto che fa le cose per dire di farle, voglio fare le cose. Non amo lo showing-off, sono di essermela tirata in alcune situazioni in passato, non voglio essere nella stessa situazione – al centro dell’attenzione, pensando di essere dio in terra per una sera salvo comprendere, solo dopo qualche tempo, che sei uno dei tanti e hai la fortuna di fare parte di un progetto, ma non SEI tu il progetto.

Mi spaventa fare un lavoro “normale” in amministrazione, e alla sera buttarmi davanti a Netflix, aspettando il weekend per prendermi la birra e parlare con qualcuno di ok, nothing more than that. Allo stesso tempo mi spaventa essere un’anima sola, con un lavoro anche abbastanza appagante – magari – perché non è detto, magari finisco a Bruxelles a scrivere report – e appunto, more or less solo, se non per l’aperitivo con gente interessante all’apparenza o colleghi con cui condividi qualcosa, non molto però.

E’ difficile trovare un equilibrio, avere tutta la torta non è possibile, come dicevo l’altro giorno a Stephanie. Mi sto rendendo conto solo ora, e forse sono all’inizio di questo processo, di cosa vuol dire lasciare Beirut. E un po’ mi sto cagando in mano, forse non voglio finire a lavorare a WesternUnion in Vilnius, fare la grigliata con i colleghi a sparare stupidaggini del tipo “pizza, mafia e Corona”. Mi sono rotto di questi stereotipi da quattro soldi, by the way.

Vediamo, credo stia facendo la scelta giusta (inshallah) lasciando il Libano, spero di non ingrigirmi though – e mettiamoli ‘sti inglesismi, alla fine è cosi che penso e questo è un flusso di pensieri confuso, senza capo ne coda.

Impatto e equilibrio: forse è voler troppo dalla vita.

Gerusalemme Est

Liberato in sottofondo, sono le dieci di sera, serata piovosa fuori, anche un po’ dentro, forse è ora di comprendere le cose per come sono. Gerusalemme est in t(est)a da ieri sera, ho una foto in testa che non mi levo dalla mente.

Guardo fuori dalla finestra, un tipo ha parcheggiato la macchina e guarda il telefono: impressionante il riflesso che vedo, ci saranno almeno 30 mt. tra me e lui ma il riflesso cosi forte, nitido lo vedo come se fosse qui accanto a me. Un po’ troppo Ted e how I met your mother oggi pomeriggio tardi /stasera, non mi sono goduto un granche gli ultimi due episodi. Pace, va bin istes.

Going back to Gerusalemme est, mi ricordo quel giorno in cui feci la passeggiata per i fatti miei – credo fosse nel 2015 – con alcuni che mi guardavano e credo pensassero fossi dell’altro lato. Ci sono degli scorci che mi porto dentro e il fascino che esercitano su di me sono senza pari, forse ci tornerò prima o poi – tocco di orientalismo checked-in.

Ieri pomeriggio Silvia Romano è tornata in Italia, sono sinceramente contento che l’abbiano liberata: ragazza in gamba, dovrebbero esserci più persone come lei nel nostro paese.

Sono tornato sul mio blog, per vedere di quando era quella foto che avevo in testa: probabilmente Febbraio 2014, sei anni fa. Ho visto anche altri reperti storici, in una foto ero magro come un chiodo di viso (guance tutto tranne che gonfie), in una seconda a Settembre 2015 i capelli sembrano quasi leggermente ricci. Altra vita.

Guardo fuori dalla finestra, Liberato per fortuna ancora suona seguito da drum and base: mi rivedo nella stessa posizione in cui sono ogni tanto a Beirut, a guardare fuori dalla finestra e terminare i miei pensieri con il più classico dei “boh”.

Credo potrei riscrivere le stesse parole anche tra cinque anni, e forse le ho già scritte cinque anni fa pensando a dove tornerò prima o poi – Gerusalemme est, Berlino, Beirut o … (fill the blank).

 

Sabiha

Sabiha Gokcen: una parte di mondo.

Amo guardare le persone e questa è una stazione degli autobus, per il tipo di clientela che viaggia sul Pegasus di turno, generalmente.

Ovviamente alcune ti colpiscono più di altre: la signora siriana che all’ultimo controllo di sicurezza di Beirut mi chiede come funziona – credo fosse in visita dalla Germania a parenti a Beirut – non ha dimestichezza con l’aeroporto e le sue procedure. La rivedo a Sabiha, la vorrei aiutare visto che la vedo guardarsi intorno ma sono un po’ lontano, la pigrizia mi fa stare al mio posto in fila per il controllo dello zaino. La bambina, 6-7 anni, dopo pochi minuti è dall’altro lato rispetto alla mia fila, piagnucola, è stanca – la madre più di lei.

Sarà passata mezz’ora e lei è seduta ai tavoli del McDonald, con i tre figli che la fanno dannare. Non è vecchia per nulla, avrà pochi anni più di me: 35 manco per sbaglio.

La mia passeggiata continua alla ricerca del bar dove posso prendere il the più grande: su e giù, passo accanto al ristorante Big Chefs con il suo slogan “Second Name: Hungry. First Name: Always”. Che dio me ne scampi.

Vado in giro, ficco il naso il più possibile anche se a Big Chefs non entro, mi intimorisce un pochino la clientela, anche se siamo a Sabiha at the end of the day.

La mia ricerca termina con il primo baretto che si incontra appena superati i controlli per il volo successivo: il Secco Cafè mi da un buon pain au chocolat, prendo un Simit  e un theone grande solo nella mia mente – rimango deluso alla vista del bicchiere. Provo a chiedere un bicchiere un po’ più grande, se possibile, il tipo non capisce tanto l’inglese e allora provo a dirglielo in arabo usando la parola “kbiir” per grande. Il commesso capisce che voglio una birra e lo fermo appena in tempo, ripetendogli due volte “chai, chai”.

Mi sembra di vedere parecchie persone del nord Europa, un po’ mi stupisco ma in effetti da qui si va ovunque e viaggiare economicamente fa comodo a tutti – al di là degli stereotipi sulla situazione economica di chi viene da certe parti d’Europa.

Vengo a sedermi al fondo fondo, visto che di solito non c’è mai nessuno, dopo la Terrace. Non c’è quasi nessuno, ritrovo il companero 24D nell’aereo dove ero la F. Mangio accanto a lui ricordando i tempi in cui, non so spiegarmi il motivo, mi portavo sempre il cioccolato per i viaggi e le attese ( ma sempre sempre!) e Istanbul era sempre un buon luogo perché con il Simit e una tazza di the era una piccola festa. Cerco di fare meno rumore possibile con la carta per aprire/chiudere il sacchetto – ovviamente ne faccio ancora di più –  lui, libanese cristiano, prova a stendersi ma dopo pochi minuti si arrende, non trova la posizione, l’altoparlante che sbraita LONDON STANSTED è veramente noioso. Ci parliamo al volo, lui va a Parigi, mi chiede da quanto tempo vivo in Italia – forse mi scambia per libanese – ma il mio arabo non è stato outstanding nelle mie poche parole. Mi sorprende.

Non vedo israeliani in giro, solitamente  è il caso e per qualche motivo mi sembra che spesso i gate di partenza siano accanto l’uno all’altro per Beirut e Tel Aviv. Un paio di volte sono andato a vedermi da “spettatore” questi gate negli ultimi anni, in realtà succedono cose più nella mia testa che nella realtà, si tendono ad ignorare gli uni con gli altri.

Sta albeggiando, magari provo a prendere una seconda tazza di the. Ho il volo tra 3h e mezzo, la tranquillità di questo lato al fondo fondo non è più tale per l’ennesimo volo verso una qualche destinazione che uno manco ha mai preso in considerazione – una Dusseldorf, per esempio.

Vado, mi rendo conto che sono almeno tre le persone che vedo in modo ravvicinato con il trapianto ai capelli, uno sembra ancora pieno di sangue in testa – cerco di distogliere lo sguardo, la mia mente malata spinge il mio occhio verso il dettaglio macabro. Mi spaventa questa cosa, stanotte so già cosa sognerò.

N.

Le note di Nada risuonano in macchina sulla strada, abbastanza malmessa, che ci porta verso la Valle della Bekaa: tempo grigio, la musica suona a tempo il meteo e l’orario mattutino della nostra partenza.
Il tempo peggiora man mano che saliamo su verso la montagna, che ci porterà poi a scendere, quasi a zig-zag, verso la Valle. C’è nebbia, mano a mano si dirada. Dopo una prima visita ad un centro di una organizzazione partner, SAMS – Syrian American Society – che ci aiuta nella fornitura di medicine per il progetto medico, andiamo pochi chilometri verso Ovest, a ElMarj, a visitare una famiglia che ci auguriamo di poter aiutare verso il Corridoio Umanitario diretto in Francia.

N. ci racconta la sua storia, in realtà scende nei minimi particolari: è la terza volta che lo incontriamo, di fatto la rivive ogni volta che lo rivediamo, e non è semplice. Per me come ascoltatore, e dattilografo della sua storia attraverso le parole di Hani, il mediatore, provo ad avvicinarmi alla sua vita, grazie alla conoscenza del contesto siriano acquisita e all’esperienza di quasi tre anni di colloqui con persone siriane, ma nuovamente, come tante altre volte, non posso che scrivere e stupirmi mano a mano che il racconto va avanti.

Per quanto posso averne sentite nel corso di questi quasi tre anni, per quanto posso provare a mettermi nella scarpe di chi ha vissuto momenti quasi indicibili, è impossibile provare a pensare per il sottoscritto di vivere dieci anni della propria vita in carcere a Tadmor, definita dalla BBC una delle peggiori prigioni del mondo nel 2015. Dieci anni. 10 anni della propria vita.

E’ impossibile pensare di essere picchiato quasi a morte, con benzina buttata sul tuo corpo, la minaccia di bruciarti vivo e, se ancora non fosse abbastanza, davanti a te avere tuo padre: convocato nel carcere dove sei detenuto, senza aver mai visto un avvocato e senza un’accusa formale formulata nei tuoi confronti, l’unica certezza è la razione di botte garantita, anche se tuo padre è una persona di una certa età. Tutto questo per spingere te, suo figlio, a confessare di essere contro il regime in Siria.
E’ impossibile provare ad immaginare di avere la moglie arrestata per pochi giorni, questa volta ad anni di distanza, nel 2012 durante le proteste in Siria, con ancora i segni delle sigarette spente sul palmo della mano, solo per la colpa di provenire dalla zona sbagliata e chiedere aiuto all’ospedale, dopo che l’edificio in cui avevi il tuo negozio di vestiti era stato colpito da un barile bomba e andato in fiamme. Forse colpito dagli stessi che poi ti arrestano in ospedale.

E’ impossibile comprendere, dopo tutti questi eventi: e ancor meno provare a festeggiare il compleanno del nipotino di 9 anni, Munir, che lo stesso giorno muore per una pallottola vagante sparata da una milizia in Libano. La commemorazione di un suo defunto porta ad un’altra morte, di un bambino che ha avuto l’unica colpa di essere accompagnato dalla madre a fare una passeggiata, forse nell’unico parco verde di Beirut, nel momento sbagliato. Non riesco ad immaginarmi nemmeno lontanamente cosa possa aver provato la madre di questo bambino quel giorno. Credo sia impossibile. E figuriamo N. , lo zio, che già ne ha passate a sufficienza in questa vita.

La giornata va avanti: ancora due valutazioni mediche da parte del medico responsabile del progetto, una preparazione per un’intervista tra qualche giorno in Ambasciata francese. Con la testa sono lontano, nei meandri del precedente colloquio, un pugno nello stomaco nella mia ora e un quarto di colloquio. Innumerevoli invece, senza fine, i pugni nello stomaco ricevuti da N. nel corso della sua vita – pugni che, forse, non sono finiti ancora oggi.

A Question

*** Article written in early September ***

 

The first thing I felt after been outside Beirut airport has been the smell of sewage coming from neighbourhoods nearby. It’s 4am and I quickly manage to get a taxi to reach the flat where I live.

Since two years and an half I live in Beirut, with many back-and-forth though, and I must say I have smelt that from time to time:it’s not the first time. A colleague of mine, Hani, said the situation is improving and the feeling while walking on the street is yes here and no there: still bunches of trash can be found without being picked. Might be the situation is improved outside of Beirut: I do not know it well since lately I did not move out of the city.

Generally, anyway, Beirut is dirty and lack of rain does not help to clean at least slightly around.
On newspapers there are a lot of talks about an incinerator which could be set and local communities complaints about the future smell going-to-come in their areas.Let’s see.
Speaking with friends of mine, I discover that Riccardo does not get regular water in his flat within the district of Hamra, but just salty water out of the tap. I feel lucky compared to him since at least I can use tap water to brush my teeth or to cook. The district where I live, Jeitawi, still nowadays mostly Christian, historically received the few public services provided by Lebanese authorities in bigger portions compared to what happened to districts as Hamra, recognized as Muslim Sunni neighborhood, which generally are less served.
In order to get regular water out of the tap, lebanese and international people living in those districts – absolutely central within the city, not peripheric at all – are supposed to pay companies delivering water in tanks and therefore twice the amount at the end of the month. A bill for the company, another for the public system (doesn’t matter it’s salty, you pay for it anyway).
I tried only once in my life to brush my teeth with salty-water, while I was in Hamra, and I had to stop few seconds after I start: it feels like the salt is eating/taking/ fully-overwhelming your mouth, impossible to bear. Riccardo can surely afford the bill to get water, others living there or nearby not always, to say the least, can. Big water-cans are possible to buy on streets in small shops.

How many steps, how much effort people have to take just to get regular water to drink, to cook, to wash? This is the question I pose myself in this sticky evening of late summer.

Few insights on daily-life in Beirut.

Progetto Miseria

 

Sono sull’aereo, dietro di me due libanesi parlano di “Suriin”  – siriani – non credo ne parlino alla grande, ma sento poco. E nonostante sono stato via qualche giorno da questo paese, per prendermi una pausa, alla fine è difficile staccare in modo completo.

Ecco che torna in mente Mashrua Mizer: Progetto Miseria, cosi suona nelle mie orecchie questa zona a Naame, cittadina /villaggio tra Beirut e Saida, Libano.

Scrivo Mashrua – si traduce con Progetto – cosi, alla buona, come me lo scrivo nella mia mente progredendo lentamente verso un arabo sufficiente.

Progetto Miseria: palazzoni costruiti uno intorno all’altro, quasi a formare due rettangoli praticamente paralleli, affiancati dalla strada che li collega, con gli edifici a formare i lati. Costruiti nel dopoguerra civile in Libano, dal ’90 in avanti, e il tempo forse si è fermato a quel tempo perché Hariri padre è ovunque nelle foto, affiancato da qualche foto del figlio, un dimenticabilissimo Saad (sarebbe bello) qui e la.

Progetto Miseria perché, da come mi viene spiegato dalla colonna Bayan, ci fu uno scandalo per cui gli edifici vennero costruiti super al risparmio ed ad un certo punto uno di questi crollò, portando all’arresto del costruttore – giustizia in questo paese, a volte succede.

Le case sono state prese in affitto dai siriani, dall’inizio del conflitto in cerca di una sistemazione un po’ più economica rispetto a ovunque, di base, caro come il fuoco.

Visitiamo Omar, un ragazzo 35enne con moglie e tre figli. Una delle tre è Mays, ha una disabilità fisica, non cammina benissimo povera cristiana, non è mai andata a scuola, ha 8 anni, e vocalizza poco. Diversità di opinioni all’interno del team, spero che possano uscire da questa realtà che in confronto la Tabona di Pinerolo è high-class alla Piazza vittorio a Torino. Mi si siede vicino, è attratta da questo muzungu che le sorride e parla una lingua particolare. Spero di poterla rivedere in futuro, non solo per l’ultimo colloquio ma anche in aeroporto. Vediamo.

Il nome SURIIN ritorna nei discorsi dei simpatici qui dietro, risatone e ‘te passa la paura. Grandissimi.

Domani si torna in Bekaa, back to reality, e alla fine mi fa piacere cosi.

 

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